martedì 3 dicembre 2013

CRONACA DI UNO SBARCO SULLA LUNA


In questa storia non ci sono astronavi, tute spaziali o navicelle sonda.
Non ci sono neanche Shuttle, esercizi in assenza di gravità, pillole supervitaminiche e proteiche, tastiere con miliardi di bottoni e luci spia. Mancano del tutto propulsori, alette, visori, satelliti… insomma, non c’è nulla di tutto quello che ti aspetteresti di trovare in una storia che racconta uno sbarco sulla luna.
Forse, a voler trovare qualcosa di “fantascientifico” tra le sue righe, c’è qualche traccia residua di un vecchio telefilm che guardavo da ragazzo.  
C’è la luna, c’è la Base con i suoi corridoi infiniti, ci sono le sbarre, i cancelli, le serrature invisibili… ma soprattutto ci sono loro, gli alieni.
Mancano la dottoressa Russel, il capitano Koenig, il pilota Alan e la mutaforma Maya, capace di assumere le sembianze di qualsiasi organismo vivente, o almeno così ho pensato quel primo pomeriggio di novembre in cui, per la prima volta, ho messo piede dentro il carcere di massima sicurezza di Nuchis.
Sono entrato in quel mondo parallelo soltanto con il mio corpo e ho lasciato fuori tutto il resto: borsa, cellulare, ombrello, fazzoletti, agenda. Ho superato il primo cancello con una busta di plastica piena di libri nella mano destra e ho seguito il mio Virgilio con la testa piena di pensieri e paure. Giovanni Gelsomino, insegnante di scrittura creativa e giornalista, mi indica il basso edificio grigio, sotto un cielo plumbeo che non promette nulla di buono, e mi dice a mezza voce; “Guardati in giro… non perdere un solo particolare di quello che vedrai”, e me lo suggerisce mentre aspettiamo pazienti che la guardia di turno si accorga delle nostre figure infagottate vicino al cancello. Un segnale, uno scatto, una vibrazione e finalmente la serratura elettronica si apre e ci permette di entrare nel vasto cortile. Cammino in quello spazio di cemento con una strana sensazione che mi blocca il respiro in gola.
Quando Giovanni mi propose di affiancarlo nel corso di scrittura creativa che stava organizzando con i detenuti del carcere, tentennai, indeciso e spaventato dalla portata dell’evento.
«Ma perché io? Pensi che sia all’altezza? Non lo so… davvero… cosa devo fare?»
Tutte domande che cercavano di creare un cordone di sicurezza tra me e quel progetto che mi atterriva e affascinava nello stesso identico istante.
«Documenti prego» ci chiede la guardia che ci ha aperto il grande cancello. «Voi siete?»
«Scrittura creativa» risponde Giovanni.
«Scrittura creativa? Bene… avete con voi chiavi, cellulare, portafoglio?»
«No, niente. Solo i libri per la biblioteca.»
Io, nell’attesa che la guardia verifichi le nostre autorizzazioni, guardo le file di monitor che inquadrano angoli e corridoi segreti del carcere, e seguo i movimenti delle piccole figure che si muovono dentro quegli acquari bluastri con una strana sensazione di estraneità. Giovanni mi sorride per darmi coraggio e io continuo a chiedermi: ma cosa ci faccio qui dentro?

Quando passiamo attraverso la porta girevole – una porta identica a quelle che vedo sempre all’ingresso della mia banca… una di quelle che inizia a suonare se hai del metallo addosso – lo sbarco sulla luna è, di fatto, già avvenuto. Quella porta girevole è come un varco dimensionale che ti trasloca altrove; in un mondo altro dove le regole sono tutte da riscrivere e da rimparare.
Attraversiamo un lungo corridoio e poi un’altra porta blindata. Un cortile con la pavimentazione di cemento… un’altra porta blindata. Un altro campanello da suonare… un’altra guardia che deve sbloccare il meccanismo per farci entrare. Passiamo oltre. Ripetiamo i nostri nomi.
«Volontari?»
«Sì… corso di scrittura creativa.»
«I vostri nomi, per favore…»
«Deffenu, Gelsomino.»
«Ok, potete andare… a dopo.»
Altra porta, altro scatto, altro corridoio. Ci vuole pazienza. Bisogna frenare il passo e attendere. Questa è la prima cosa che imparo subito dopo lo sbarco. In un certo senso è come muoversi in assenza di gravità. Ogni gesto deve essere calcolato e previsto. Nulla si può dare per scontato come facciamo nel mondo di fuori. Qui un passo è un passo diverso. Più pesante, pensato, valutato.
Seguo Giovanni prendendo confidenza con lo spazio e cerco di farmi coraggio tra quelle pareti anonime dove spicca il grigio e un verde acqua vagamente acido.
Andrà tutto bene. Stai sereno… stai sereno.
Attraversiamo altre due porte e finalmente, una guardia, ci porta verso l’aula dove si svolgerà la nostra lezione. Entro nella stanza e mi guardo intorno per calcolare lo spazio disponibile. Una lavagna, una scrivania, una decina di banchi. Finestre con sbarre che si affacciano su un cortile interno. Fuori vedo solo dei caseggiati bassi – ali dello stesso carcere – e delle basse colline sovrastate da nuvole grigie.
Apro il primo cassetto della scrivania e ci trovo una copia di Metropolis di Flavio Soriga e un romanzo di Fois di cui non ricordo il titolo.
Ci raggiunge un’educatrice vestita in modo casual e comincia a spiegarci che i detenuti sono contenti del corso.
«La risposta sembra più che positiva, almeno da quello che ci dicono. Ora arrivano… li stiamo avvertendo che siete qui e non tarderanno molto.»
Passano pochi minuti e i detenuti cominciano a entrare nell’aula.
Tutti, nessuno escluso, mi salutano stringendomi la mano. Sorridono e il loro atteggiamento è educato e cordiale. Dopo le presentazioni si accomodano nei vari banchi e la lezione può iniziare.
Giovanni rompe il ghiaccio dicendo che sono un giovane scrittore che ha appena pubblicato un libro (giovane... vabbé... diciamo giovane). Prende una delle due copie  che ho portato con me e dopo un breve preambolo incita i detenuti a interagire con il sottoscritto che, fino a quel momento, è rimasto zitto come una statua o come uno stoccafisso. Fate voi.
«Potete chiedere tutto quello che volete e Carlo risponderà senza problemi a tutte le vostre curiosità.»
Le domande sono state tante e tutte precise e circostanziate. Alcune molto tecniche, altre più leggere. A volte le voci si accavallano per la voglia di aggiungere un pensiero o un’opinione, ed era difficile rispondere a tutti senza perdere il filo del ragionamento.
Raffaele, un ragazzo di 26 anni con una bella faccia sveglia, mi chiede: «Ma lei si sente uno scrittore?»
Della serie… come puntare una pistola, sparare, e fare centro al primo colpo.
Ho sorriso e ho cercato di rispondere con la massima sincerità. Io poi, che ancora faccio fatica a definirmi scrittore senza sentirmi profondamente in colpa per il mio ardire.
Un altro detenuto mi ha chiesto: «Ma ci dice di cosa parla questo libro? L’importante è che non parli di mafia e camorra… altrimenti non lo leggo.»
«No, non parla di mafia e camorra… tranquillo.»
«Perché basta con tutti questi scrittori che parlano di mafia e camorra, non ne posso più. Come Saviano… lei cosa pensa di Saviano? Per lei Saviano è un essere umano?»
Io guardavo il detenuto che con veemenza mi poneva le sue domande su Saviano e cercavo dentro di me una risposta giusta per quel momento e quel contesto.
«Be’, fino a prova contraria Saviano è un essere umano… »
«Ma a lei piace? Lo considera uno scrittore?»
«Saviano, ormai, è qualcosa di più di un semplice scrittore. È un caso editoriale, un giornalista, un fenomeno mediatico… »
Il detenuto mugugna poco convinto e io vengo salvato dalla domanda di un altro detenuto.
«Perché ha ambientato il romanzo nella sua città?»
«Perché per ambientarlo a Napoli… o a Chicago… dovevo, o trasferirmi lì per qualche mese – cosa che gli scrittori seri fanno spesso – o scrivere un romanzo di fantascienza per reinventarmi la città a modo mio. Ho scelto la via più comoda e meno dispendiosa.»

Finita la presentazione del libro, siamo passati al primo esercizio di scrittura.
Il nostro intento, un po’ folle, me ne rendo conto, è quello di provare a scrivere un romanzo corale.
Dobbiamo partire da un personaggio. Sappiamo che c’è un uomo che si alza una mattina e…
Per venti minuti i detenuti-alunni si impegnano a scrivere un incipit di 10 righe. Poi si leggono tutti gli incipit e si cerca di limare e lavorare quello più riuscito.
Vince, per così dire, l’attacco di Pino.
Poi c’è Enrico, un siciliano di mezza età, con barba brizzolata e occhialetti, che parla forbito – ho saputo che sta studiando filosofia – e cita autori che neanche io ho mai letto.  Non so quanti ergastoli ha collezionato, ma se penso che ha una strage sulla fedina penale – e la coscienza – mi fa strano abbinare quell’immagine tranquilla con quella di uno spietato assassino. Mi ricorda un caro amico cagliaritano e lo straniamento, per me, è ancora più forte.
C’è Mario, un signore con gli occhi chiari, che ha un modo di fare distinto e signorile… lo vedo perfetto per un film di Ettore Scola. Un bel personaggio. Un personaggio che metterei senza problemi dentro un mio romanzo. E non è detto che non ci finisca prima o poi.
C’è Massimiliano, Il Principe, un romano di bella presenza che sembra più un attore teatrale che un detenuto con qualche debito con la società e lo stato. Veste con eleganza e ha un modo di parlare e di muoversi che ti affascina. Ho saputo dalla direttrice del carcere che viene citato da Saviano nel suo libro Gomorra. Insomma, ho in classe un divo e non lo sapevo. Si intuisce subito che non è il tipo che si vanta delle citazioni letterarie prestigiose che lo contemplano. Gli piace molto scrivere, e nelle lezioni successive mi confida che con il progetto del romanzo va avanti per conto suo perché non riesce ad assecondare il ritmo degli altri. Sono certo che ha molte cose da raccontare e leggerò con vero piacere le sue storie.
C’è Carmelo che si lamenta sempre perché lui in cella vuole stare da solo per leggere, scrivere e studiare e non sopporta che i posti letto ora passeranno da due a tre. Scrive sempre e non manca una sola lezione. Ha vinto da poco un concorso letterario con un racconto e si capisce che è fiero di questa crescita personale. Il carcere può fare anche questo… dare un senso allo spazio.  
C’è il bibliotecario che scrive pagine e pagine in modo quasi compulsivo. Ama la poesia e la sua pena senza fine mai lo porterà a scrivere ancora di più. Perché se c’è una cosa che non manca, in carcere, è il tempo.
C’è Daniele, fissato con i cruciverba, che si applica molto poco e ci sono altri detenuti che passano per curiosare e a volte non tornano. Perché la sfida non è cosa da poco. Affrontare le parole. Dominarle. Darle un peso e un valore… mica è un gioco da ragazzi. Ci vogliono palle e tenacia. Più facile trovare una definizione in un cruciverba che mettersi in gioco sfidando i propri limiti.

Mi hanno colpito molte cose in quella prima lezione.
Mi hanno colpito l’educazione e la gentilezza. Mi ha colpito il loro modo di osservare le persone. I detenuti ti guardano dritto negli occhi e ti scavano dentro senza lasciarti scampo. Non siamo più abituati a questi scambi… a queste invasioni… a queste indagini. Ti senti analizzato, spogliato, ma senza giudizio e senza sarcasmo. C’è rispetto e voglia di empatia.
Non si parla del perché si è dentro. A volte, loro, ti raccontano delle cose. Si aprono e ti lasciano scorgere un pezzo della loro disperazione. E tu ascolti, assorbi come una spugna e impari.
Raffaele, durante quella prima lezione, ci ha chiesto con tono polemico: «Ma come posso io lavorare con la fantasia per inventare una storia se sto chiuso dentro quattro mura? Come posso farlo se qui il deserto avanza?»
Io e Giovanni non siamo riusciti a rispondere alla sua domanda.
Ci hanno pensato gli altri detenuti e lo hanno fatto con veemenza e passione.
Il carcere è una dimensione mentale. Sei tu che puoi decidere quanto il carcere ti può prendere e quanto tu, con ostinazione, puoi decidere di non mollare.
Disegnare una finestra in un muro di mattoni, disegnarla con un pezzo di gesso, e immaginare un mondo oltre quei vetri che puoi solo spalancare con la forza dell’immaginazione.
La scrittura è anche questo: inventarsi un mondo e camminarci sopra con la piena consapevolezza che tutto è possibile.

Quando ho salutato i detenuti prima di andare via, ho stretto mani e incontrato occhi e sorrisi che mi hanno fatto sentire a casa.
Ho scritto due dediche nelle copie del libro che ho portato per la biblioteca del carcere e alla domanda… tornerai?... ho risposto… tornerò.
Perché è proprio vero che a volte ci si sente alieni solo fino a quando il nuovo mondo non inizi a respirarlo senza timori e pregiudizi.
Il principe mi ha detto proprio ieri: «Chissà quanto resisterete... sarà dura starci dietro... forse venite per i soldi... forse per i soldi non si molla facilmente la presa.»
«No, Massimiliano, noi non prendiamo soldi e neanche un rimborso spese. Abbiamo scelto di rinunciare ai soldi e di venire da voi solo per la voglia di condividere in modo creativo un pezzo di strada. Tutto qui» ho risposto io, mettendo in chiaro le cose.
«Allora questa scelta vi fa ancora più onore... farei un triplo salto mortale all'indietro se non rischiassi di finire in infermeria» ha ribattuto lui sorridendo.

Un altro passo conquistato. Uno dei tanti in questo mondo-dimensione-universo con le sue regole e le sue leggi. E mentre attraversi il cancello di metallo che ti permetterà di tornare nella tua realtà, sai già che quello sbarco sulla luna ti ha mutato… e anche se non sei Maya, la mutaforma di Spazio 1999… qualcosa, dentro di te, si è trasformato… ha cambiato pelle.
Siamo saliti in macchina, siamo partiti con la nostra navicella spaziale, e ci siamo diretti verso l’uragano Cleopatra. Ancora non lo sapevamo… ma quel lunedì, la nostra isola, sarebbe stata travolta dal fango e dalla disperazione.  

Houston… abbiamo un problema…

Nessun commento:

Posta un commento