sabato 31 dicembre 2011

SCATTI DI UN ANNO



Ultimo giorno dell'anno.
Tempo di bilanci.
O forse no.
Oggi si cerca solo di vivere questo ultimo scampolo del 2011 con un po' di leggerezza, con la vicinanza di qualche amico sincero, con la complicità di un amore sicuro, con la gioia di un bambino che ancora si meraviglia, con lo sguardo silenzioso di una nonna che sgranocchia un pezzo di torrone morbido.
Si alzeranno i calici e si brinderà.
Nella memoria ognuno di noi avrà i suoi scatti...le sue foto personali.
Alcune felici, altre meno.
Ma queste sono le regole del gioco.
Per finire l'anno con un volo radente sul mondo vi propongo le foto che sono arrivate prime al bel noto National Geographic Photo Contest 2011.
La giuria ha dovuto visionare ben 20 mila foto provenienti da 130 Paesi e tra tutte queste immagini ha vinto la splendida macro di una libellula sorpresa da un improvviso acquazzone. Foto realizzata da un fotografo indonesiano: Shikhei Goh.
Ha vinto 10 mila dollari e un viaggio al prossimo National Geographic Photography Seminar: un sogno per qualsiasi amante della fotografia.
Bisogna ammettere però che anche le altre foto arrivate in finale, a un passo dalla vetta del podio, meritano attenzione: sono immagini che non raccontano soltanto i prodigi e i misteri della natura, ma si soffermano sulla vita dell'uomo relazionata all'ambiente che lo circonda: urbano o naturale. 
In questa varietà di scorci di vita si può cogliere davvero tanto della mondo che ci gira intorno e che spesso viviamo con occhi poco attenti al dettaglio.

Ecco tutte le foto finaliste:












Belle vero?

Buon anno a tutti.

P.S. - Voglio ringraziare tutte le persone che sono passate sulle pagine di questo blog e hanno lasciato una traccia di sé.
Anche chi non ha mai commentato e si è limitato a leggere in silenzio.
Grazie a tutti.

ALIAS

venerdì 30 dicembre 2011

APPARIZIONI


Il mondo è piccolo e i fantasmi sanno sempre come raggiungerti.
Credo di avere un primato molto personale: un bel magazzino di fantasmi che ultimamente sbucano fuori dai posti più impensabili e fanno sentire la loro voce.
Non so se è il periodo natalizio a stimolare pensieri buoni e propositi speciali, ma questa ondata di "apparizioni" mi ha decisamente incuriosito e sorpreso.
Ai fantasmi, o per meglio dire, ai buchi che certe assenze determinano, ci fai il callo dopo un po'.
Se poi i buchi sono tanti e la tua vita rassomiglia in modo preoccupante a una fetta di gruviera, be', inizi a domandarti dove alberghi il tuo gene sbagliato.
Non chiamerò l'esorcista e non chiamerò neanche un potente ghostbuster.
Ho scoperto che i fantasmi non mi fanno più paura.

Nascondere la polvere sotto il tappeto?
Noooooo...semplicemente ci si abitua a tutto...anche a uno squillo nella notte.
Pronto...chi parla?

ALIAS

giovedì 29 dicembre 2011

SENZA FRETTA


Ho ritrovato questa foto in un dvd con 1400 foto della mia famiglia sbucate fuori dal cassetto di uno zio e masterizzate da mio cognato in un un altro dvd per farmi godere di questo piccolo tesoro di Natale.
Tutto è esploso grazie a un'idea geniale di mia sorella.
Partendo da questo archivio di foto inattese, ha scelto le foto più significative della mia famiglia e le ha stampate e sistemate in un album fotografico che ha poi regalato alla nostra nonnina.
Il passato è piombato all'improvviso nel presente con scatti e testimonianze di una vita lunga e complicata che ha scaldato tanti letti, tanti baci e tante lacrime.
Mia nonna si è commossa. Mia madre pure.
Io no. Ho il cuore arido...ma guardando le foto nella solitudine della mia casetta (lontano da sguardi indiscreti) ho ripensato alla mia infanzia, allo sguardo limpido di quel ragazzino che ancora non sa cosa gli ha riserverà il futuro.
Ho pensato alle persone che non ci sono più. Alle persone che ho amato. Alle scelte che ho fatto (quasi tutte sbagliate). Al tempo che non torna più. Alle rughe che tracciano la storia di questi ultimi 40 anni di vita e disorientato mi sono sentito precipitare un un calderone di tristezze e felicità infinite.
Ho così poco tra le mani...e temo così tanto di perdere i miei genitori...gli amici...le mie stelle comete...temo così tanto di restare alla catena, solo e dimenticato in un angolo, che il mio cuore lo sento avvolto da uno spesso strato di carta stagnola che non luccica più.
Tutto mi sembra che sia passato tra le dita senza che io me ne rendessi veramente conto.
A un passo dalla mezza età...e con tutti i dolori e i problemi che incalzano come furiosi spiritelli...penso solo che non ho nessuna fretta.
Vorrei invecchiare senza fretta.
Posso?

ALIAS

mercoledì 28 dicembre 2011

COSE BELLE


Le cose belle del Natale:

1- sapere che prima o poi finirà e che non ci penserai più fino al prossimo anno.
2-la crisi che ha portato a un sano ridimensionamento della festa del consumo.
3-essermi evitato file nei negozi e spese inutili.
4-gli auguri di qualche amico lontano.
5-le lacrime di mia madre.
6-le foto della mia infanzia e della mia famiglia spuntate fuori da un cassetto dimenticato.
7-rivedere (in questo archivio di foto) mia bisnonna Luigina, mio nonno Francesco, mia nonna Vittoria, le mie zie Palmira, Maria e Nicoletta, tutte persone scomparse da tempo, il Lido dove passavo le vacanze con la famiglia e la mia tribù di cuginetti con cui giocavo e sperimentavo mondi paralleli.
8-la lettura della saga di Nathan Never che avevo messo da parte dall'aprile scorso per leggermela tutta di fila.
9-la lettura magica di Murakami.
10-scrivere il mio secondo romanzo (sarebbe il terzo a dire il vero, ma il primo non vedrà mai la luce!) con un entusiasmo che mi ha sorpreso e stimolato a continuare.
11-un pranzo di Natale più sereno e meno frenetico del solito.
12-mia nonna Grazietta e le sue poesie.
13-le mie sorelle...tutte bellissime.
14-un sms inatteso.
15-capire che si invecchia e non soffrirci più come prima.
16-aver capito che certi silenzi e certi ritorni sono ciclici e fanno parte del gioco.
17-non sapere cosa farò a capodanno ed essere felice così.
18-la battuta giusta al momento giusto.
19-le formagelle e il caffè.
20-un cuore che batte solo per me.
21-il buon proposito di riprendere a correre per tornare il figo di un tempo.
22-chiudere con la pasta e il pane.
23-il cioccolatino della mezzanotte.
23-l'ultimo romanzo di Stephen King e le ciabatte morbide e profumate.
24-il calore della mia casa.
25-la sparizione di una sfilza di regali inutili che non userai mai e cercherari di rifilare a qualcuno alla prima occasione (grazie crisi!).
26-qualcuno che ti dice che non sei cambiato di una virgola negli ultimi 20 anni e fare finta di crederci.
27-trovare un maglione che non è slim o sagomato e indossarlo con una certa rilassatezza.
28-imparare a volersi bene.
29-le lucine del mio albero di natale.
30-essere ancora qui.

ALIAS

domenica 25 dicembre 2011

IL MIO NATALE: E LA LUCE ENTRO' IN ME di CARLO DEFFENU


IL MIO NATALE giunge alla fine.
Dopo una lunga maratona durata quindici giorni arriva il momento di tagliare il traguardo.
Ringrazio tutte le persone che hanno voluto partecipare con un racconto, una lettera, un pensiero a questa piccola iniziativa nata per gioco e rivelatesi ben presto più ricca e complessa di quanto immaginassi. I vostri racconti mi hanno emozionato, tradito, sorpreso, incantato, rigenerato, divertito e motivato. Ho sempre pensato che il confronto aiuti le persone a crescere e questa raccolta di racconti è un fulgido esempio per ogni sognatore incallito. Non so cosa spinga un uomo a scrivere. Ma nella mia ignoranza credo che non esista gesto più intimo e rivolizionario di questo.
Chiudo la porta con un mio racconto scritto per l'occasione.
Diversamente dal precedente, giocato sull'ironia, qui calpesto un terreno arido e ghiacciato che mi ha portato altrove.

Buona lettura. 

E LA LUCE ENTRO' IN ME

Il mio nome è Milton Bale.
Ho 48 anni e sono un uomo cattivo.
Lo Stato mi accusa di aver ucciso mia moglie Henriette.
L’ho picchiata, è vero. L’ho fatto per ragioni stupide.
Ora che tutto è andato a farsi benedire me ne pento, ma non si può tornare indietro.
Non si può quasi mai.
Era una brava moglie la mia Henriette.
Un  po’ troppo severa e lunatica forse, ma nessuno sapeva parlarmi con le parole giuste come faceva lei.
Ho sempre lavorato nei campi. Ho imparato tutto guardando le mani callose di mio padre.
So spaccare le pietre e intagliare la legna.
Alla mia Henriette ho regalato un cavallo fatto con le mie mani; ricordo il suo sorriso felice quando le ho detto «Questo è per te.»
Quel cavallo lo ha messo sulla mensola del camino e per anni lo abbiamo guardato nei lunghi inverni con la neve alta fuori dalla porta.
So trattare la legna…ma so anche sentire il vento, curare gli animali e seguire le stagioni.
Le mie stesse figlie hanno pianto per il mio misero destino.
Dicono che ho ucciso Henriette con la mia ascia da lavoro.
E questo mi fa male.
È vero, la picchiavo, lo facevo perché a volte il nervoso mi saliva alle mani e non sapevo come fare per calmarmi e lei, con la sua pazienza, mi faceva arrabbiare ancora di più.
Ma volevo bene alla mia Henriette e alla fine mi pentivo.
Lei si nascondeva in un angolo della casa e io andavo a cercarla come un bambino disperato. Chiedevo perdono.
E lei…lei mi perdonava sempre.
Era una Santa la mia Henriette.
Dicono che ho fatto a pezzi la mia famiglia solo per stupida gelosia.
Ma sono tutte sporche menzogne.
Non ho mai creduto alle voci che giravano in paese.
Henriette non guardava nessuno.
La sua era solo cristiana compassione verso il prossimo suo.
Io, quella maledetta mattina, lavoravo nei campi con la testa bassa e non ho sentito nulla…nulla.
Sono state le mie figlie a trovarmi con il corpo di Henriette tra le braccia.
Il suo sangue lucente sulle mie mani sporche di terra.
Ma io non c’entravo niente. Io piangevo come loro per tutto quel silenzio assordante.
Ho gridato la mia innocenza per anni…ma la giuria non ha creduto alle mie parole.
Per lo Stato io sono un uomo cattivo.
Per le teste onorevoli di quei 12 cittadini venerabili io merito il fulmine della punizione.
E per questo motivo mi trovo qui.
Per pagare.
Per espiare le mie colpe.
Così mi ha detto Padre Mullock.
È il Natale del 1959 e sono qui.
Solo e triste.
Ho salutato i miei compagni di sventura con un sorriso muto. Percorrendo l’ultimo corridoio con gli agenti Mick e Thomas al mio fianco, ho visto l’albero di Natale costruito con le mie mani.
Ho intagliato tutti gli animali che lo addobbano con il mio coltellino speciale e li ho appesi ai rami dell’abete.
Guardando le luci accese che brillano come piccole stelle nel silenzio della prigione ho sentito una fitta dolorosa al centro del petto.
Ora sono solo e sto seduto davanti alle vostre facce impassibili.
Ci divide un vetro. Posso quasi sentire i vostri respiri.
L’agente Nolan mi blocca con le cinghie di cuoio alla sedia, mi mette il morso tra i denti e come un padre benevolo mi bagna la testa sotto la cupola elettrificata.
L’acqua conduce…conduce sempre la luce.
Ho chiesto di vedere.
Mi hanno raccontato che quando si muore ti passa davanti agli occhi tutta la vita e io non voglio perdermi questo ultimo spettacolo.
Per quanto misera sia la mia vita…è la mia.
Perdonami Henriette per le botte.
Perdonatemi figlie mie se non sono stato capace di essere un buon padre.
Io so tagliare la legna, lavorare la terra, sentire il vento… nessuno mi ha insegnato a fare il padre.
Ora vi vedo, giudici e testimoni, uno per uno vi vedo, in fila dietro il vetro, con le vostre facce giuste e sante.
Percepisco con la coda dell’occhio un gesto del direttore.
È arrivata la mia ora.
La leva viene abbassata e la luce entra in me.
Un bagliore, un dolore infinito e poi…poi arriva un mare di silenzio.
La mia vita scorre come luce e va oltre.
Posso vederla solo io la mia vita imperfetta che scorre.
A voi, perdonatemi, posso solo raccontarla.

***

Ringrazio le stelle buone.
Quelle che brillano anche quando tira vento.

ALIAS

sabato 24 dicembre 2011

IL MIO NATALE: MY CHRISTMAS di FRANCESCA MONTOMOLI


Penultimo giorno per l'antologia natalizia che ha raccolto tanti racconti, tante idee e tanti spunti narrativi. Vigilia di Natale. C'è chi festeggerà con i parenti, chi con il proprio cane, chi da solo. Chi ha un amico da chiamare, chi un amore da dimenticare, chi aggiunge un posto a tavola per un ospite inatteso. Un pane condiviso. Una luce accesa. Un brindisi sincero.
FRANCESCA MONTOMOLI ci racconta un incontro-scontro capace di cambiare il senso di una giornata. Ho sempre ammirato la sua capacità di far entrare il lettore nelle storie che racconta.
Ne è un esempio fulgido, lampante il romanzo LA STANZA VUOTA, edito da Sangel Edizioni.
Un romanzo che scava sottopelle con delicata perseveranza.
Grazie anche a lei per la presenza in punta di penna sulle pagine di questo blog.

Buona lettura.

MY CHRISTMAS

24 dicembre 1995. Fa freddo. Le pozze d’acqua sul selciato si sono rapprese in strane figure, raggrinzite e spaccate dal passaggio delle auto, e il vento, prima di calare, ha spazzato via ogni traccia di nube lasciando un cielo cristallino che lentamente incupisce verso il crepuscolo. S’è fatto tardi, presa com’ero dal rito dei regali da infiocchettare, mi sono scordata dello stendibiancheria sul terrazzo, perciò mi getto sulle spalle una giacca di lana ed esco per ritirare i panni appesi, prima che si gelino del tutto anche loro.
 I colori cambiano in fretta nella sera che avanza; il salmastro sale dalla marina e si mischia al profumo di biscotti e torta di mele; le luminarie ondeggiano fra i lampioni solleticate dal camion della frutta e dalla piazzetta giunge l’eco fioca della risata del Babbo Natale meccanico e dei bimbi che si divertono a saltellargli davanti. Alzo gli occhi in cerca della stella della sera e sorrido pensando che un giorno mi piacerebbe vedere una slitta tintinnante stagliarsi in un cielo come questo, solo per godermi lo spettacolo dei loro faccini stupiti. I bimbi di oggi non credono più di tanto a Babbo Natale, ed è un vero peccato. 
Nonostante i brividi e il fagotto dei panni, mi attardo ancora un attimo per sistemare le mie decorazione arruffate dal vento e le vedo arrivare. Prima la Maestra e poi la cognata, qualche passo più indietro.  Potrei rimetterci l’orologio con le loro abitudini.
La Maestra cammina a piccoli passi, lenti ma decisi, tenendo la testa un po’ reclinata  a causa dell’artrosi. Ha i capelli tinti di un biondo rossiccio, mossi da un’onda trattenuta dietro le orecchie dalle pettinine d’osso. Giunta davanti all’ingresso, si ferma per passare il bastone nell’altra mano e si appoggia, sempre alla colonnina di destra, per scendere il gradino del nostro strambo cortile incavato. Sempre con lo stesso piede. Sempre alla stessa ora. Ogni giorno feriale che Iddio mette in terra, che piova, che tiri vento o che si muoia dal caldo sotto il sole d’agosto. La cognata la segue fermandosi ogni tanto, un po’ per riposare le ginocchia offese dalla malattia e un po’ per i suoi passi, assai più lunghi.
Sono una strana coppia. La prima minuta, ordinata e compunta, la seconda alta più di un metro e ottanta, variopinta e un po’ “caciarona” nel suo pittoresco dialetto. Entrambe vedove da tempo immemore e senza figli, hanno optato per una convivenza animata e non esattamente pacifica. Non sempre, almeno. Hanno passato gli ottanta da un pezzo, anzi, una di loro viaggia spedita verso il traguardo del secolo e sono le mie vicine preferite. Sulle prime non scambiavamo che poche parole di circostanza, sembravano riservate e un po’ scostanti. Sarà l’età, pensavo, che talvolta rende diffidenti. Ma mi incuriosivano quelle due vecchiette che sentivo battibeccare attraverso le pareti, che vedevo scendere con le seggioline pieghevoli per andare in pineta d’estate e in spiaggia a primavera, e che mi precedevano sulla strada della chiesa  ogni domenica e ogni festa comandata. Tutte tranne Natale.
Riservate e schive. Distanti, finché non le ho attirate nella mia vita con uno strattagemma: ho affidato loro mia figlia in un giorno di pioggia.
Un temporale di quelli terribili, l’inderogabile appuntamento con l’uscita da scuola del secondogenito e una bimbetta di pochi mesi che non dormiva mai. Fra lasciarla da sola nel lettino e affidarla alla sorveglianza delle due ultra-ottuagenarie la scelta fu istintiva. E felice. Una ventata di allegria nella loro vita, una marea calda e preziosa nella nostra.
Tranne a Natale, quando il loro appartamento si fa silenzioso e la porta non si apre, quasi che l’esuberanza di decori e musiche e risate della nostra casa e delle altre accanto suoni come un’offesa.
Non si festeggia il Natale in casa della Maestra.
E mi è sembrato così strano, così in contrasto con la sua abituale serena gentilezza,  finché la cognata, in vena di confidenze, ha sollevato il velo del mistero.
Il marito della Maestra si chiamava Angelo. Il suo Angelo che la guarda dal Paradiso, come dice sempre. Un angelo che il Signore si è preso in un istante mentre stava scherzando e chiacchierando con la sua Maestrina. Mentre stava indossando il vestito nuovo, quello  della festa, per andare in chiesa la mattina di Natale.
Sono passati cinquant’anni, abbastanza per far pace anche con Dio e la Maestra ci fa pace ogni domenica. Tranne a Natale.

25 dicembre 1995. Mi affretto su per le scale tenendo stretta la mano di mia figlia. La funzione è durata più a lungo del solito, come i saluti, gli abbracci e gli auguri sul sagrato, ma ci sono le ultime cose da preparare per il pranzo della festa e gli invitati stanno per arrivare perciò devo affrettarmi. Non che sia una novità, ma sono in ritardo, così mi chino per prendere in  braccio la piccola e salire i gradini due alla volta. Lei invece mi sguscia via con gridolino eccitato, farfugliando qualcosa di incomprensibile anche per me, e si inerpica veloce aiutandosi con mani e ginocchia.  La porta è aperta e la Maestra è là. Ci stava aspettando e quell’enorme pacco colorato, coperto da una cascata di fiocchi scintillanti, la fa sembrare ancora più piccola e fragile. Dietro le sue spalle fa capolino la cognata, ridendo con la mano sulla bocca per non farsi sentire.   
Non so cosa darei per poter fissare quest’immagine in una foto o in un quadro da guardare e riguardare mille volte in futuro. La gioia di un’amicizia, tanto improbabile quanto sincera, fra una bimba di due anni e due donne che di anni ne hanno quasi novanta è già qualcosa di grandioso, ma quello che vedo oggi è davvero commovente. Perché gli ultimi rimasugli di riottosa resistenza sono scomparsi dal viso della donna, sono scivolati via, sciogliendosi come una maschera di cera, per lasciare il posto al sorriso più dolce e luminoso che mi sia capitato di vedere.
Mentre guardo mia figlia che la tira per il vestito e ride e strilla e non riesce a farsi capire, so che questa sera nessun pacchetto resterà sotto l’albero ad aspettare solitario il giorno che viene, che dovremo prendere in prestito un paio di sedie e scompagnare i piatti e le posate, ma so per  certo che nessun pranzo di Natale sarà mai più bello di così.
 
***

Buon Natale!

ALIAS

venerdì 23 dicembre 2011

IL MIO NATALE: PRESEPE VIVENTE di MARILENA GUGLIELMI


Ultimi racconti dell'antologia IL MIO NATALE.
Questa volta tocca a MARILENA GUGLIELMI cimentarsi con un tema classico come le feste di Natale. Ci riesce rappresentando un presepe vivente molto particolare e una paura atavica che appartiene alle ansie di ogni genitore.

Buona lettua.

PRESEPE VIVENTE

Scuola materna “Baby parking”, in via dei Mille, a pochi passi dal Po, in pieno centro di Torino. Un asilo esclusivo, dalle tariffe inavvicinabili, unicamente a uso e consumo delle famiglie più abbienti.
I genitori dei pargoletti, seduti davanti al sipario improvvisato nel salone, aspettano l’inizio della recita di Natale. Avvolti negli abiti lussuosi, fatti di seta e lana pregiata, chiacchierano sottovoce, scuotendo le chiome fresche di parrucchiere.
Gisella, una giovane signora alta e aristocratica, attende in silenzio, il cuore gonfio d’orgoglio. Il suo piccolo Gabriele è stato scelto per il ruolo di Gesù: e chi se ne stupirebbe, guardando i suoi occhi celesti, i boccoli d’oro, i lineamenti minuscoli e perfetti, dall’espressione serafica?
All’improvviso il sipario azzurro, decorato con stelle d’argento, si agita lievemente, come se un’improbabile corrente d’aria si fosse intrufolata nell’edificio.
Nonostante il tepore della stanza, qualcuno rabbrividisce, senza sapere perché.
Poi, dal palcoscenico si odono voci alterate, sedie rovesciate; una porta si apre cigolando. Scalpiccio di piedi; un grido di sopresa.
Infine il tendone crolla; una delle bambine è inciampata e l’ha strappato, trascinandolo a terra.
Agli spettatori appare il presepe vivente, in tutto il suo splendore: ma i piccoli attori sono in tumulto, chi ride, chi piagnucola… Tutti indistintamente danno le spalle al pubblico.
Una piccina mascherata da pecorella si tira indietro il cappuccio lanoso, guarda verso i genitori e strilla ingenuamente:
«Gesù è scappato!»
Gisella balza in piedi, e irrompe sulla scena.
«Che succede? Dov’è mio figlio?»
La maestra dei più piccoli sembra imbarazzata:
«Eravamo quasi pronti… All’improvviso Gabriele si è guardato attorno, e ha sgranato gli occhi, come se non ci riconoscesse più. Ha smesso di sorridere… Ed è fuggito!»
«Fuggito? Come? Dove?»
La signorina, poco più che adolescente, arrossisce e accenna con il mento al varco che si è aperto nel folto gruppo dei pastorelli.
La madre attraversa il palcoscenico ed entra nella stanza adiacente, che è un ampio spogliatoio. La direttrice in persona le si para dinnanzi, la chioma grigia raccolta in uno chignon, l’espressione altezzosa, e le afferra un braccio.
Lei si divincola.
«Dov’è mio figlio?»
«Sembra che qualcosa lo abbia spaventato. Ha preso la sua giacca a vento, ed è corso fuori, in corridoio.»
«E nessuno l’ha fermato?»
La dama alza le sopracciglia e la guarda, un po’ ironica.
«Non si agiti, signora. Dove vuole che sia andato? Da solo, un piccino di tre anni?»
In quel momento, quasi a contraddirla, si sente sbattere fragorosamente il portone del palazzo.
Gisella, afferrato al volo il suo costoso piumino griffato, se lo infila varcando l’uscita, scendendo a precipizio le scale; si arresta un istante per raccogliere, da un gradino, uno dei guanti di suo figlio, evidentemente caduto dalla tasca.
In men che non si dica, è in strada.
Suo figlio sta correndo verso ovest, la giacca a vento bianca con il piccolo cappuccio che sobbalza sulle spalle. Gisella lo intravvede, a una ventina di metri, mentre s’infila tra la folla intenta allo shopping natalizio. La gente guarda le vetrine, e sembra non accorgersi di nulla.
«Gabriele! Fermati!»
Inutile; il rumore delle auto e le voci dei passanti inghiottono il suo richiamo.
Lei inizia a correre, ma l’orda, in estasi davanti ai negozi che rigurgitano abiti, scarpe, libri, profumi, cravatte di seta, giocattoli, intralcia i suoi passi.
Gabriele, un po’ più lontano di prima, sembra un folletto. La massa umana non sembra rallentare la sua corsa; si direbbe quasi che il bimbo le passi attraverso.  
Quando svolta all’angolo di via Pomba, lei non lo vede più.
Gisella ha un tuffo al cuore; terrorizzata, tenta di farsi largo tra i passanti; impreca, e scende dal marciapiede.
Un clacson stentoreo la fa sobbalzare. Incurante di tutto, momentaneamente libera dalla calca, lei guadagna qualche metro sul fuggiasco, riuscendo di nuovo ad avvistarlo. Finché trova la carreggiata ostruita dalla coda delle auto, che transitano a passo d’uomo, e si arresta di botto.
Altri clacson risuonano.
Lei lancia un secondo urlo:
«Gabriele, Gabriele! Fermati! Aspettami!»
Nessuno dà segno di averla udita, tantomeno il bimbo, che continua indisturbato la sua corsa.
Avanti, avanti! Deve raggiungerlo ad ogni costo: suo figlio non è mai stato in strada da solo, senza la mano protettiva della mamma stretta alla sua. Non sa nulla del pericolo…
Il piccolo, rapido, avanza lungo via Bogino, a testa bassa, come se evitasse la vista di tutto il fasto e il lusso che lo circondano, come se ne avesse orrore.
Gisella arranca, preme, calpesta, strattona, si agita, geme. Nonostante il freddo, un rivolo di sudore le scorre sul viso. Si strappa di dosso il piumino e lo getta a terra, con rabbia.
«Dannazione, lasciatemi passare!»
Le sue parole sembrano rendere ancor più impenetrabile la muraglia umana. I passanti dall’aria ebete la guardano, indifferenti.
l piccolo Gabriele, un po’ più lontano, sta attraversando via Maria Vittoria, lesto come un cagnolino spaventato.
Sua madre ha il cuore che perde colpi, le braccia tese follemente in avanti. Inciampa in un tombino. Uno dei suoi tacchi a spillo si è incastrato nella grata.
Scalciando rabbiosamente, Gisella si libera delle scarpe, e prosegue, disperata. Dopo dieci passi le sue calze finissime sono a brandelli, ma lei, per una volta, non se ne dà pena.
Ha gli occhi annebbiati dalle lacrime.
Eppure, vede ancora Gabriele, poco lontano.
Via Rossini. Per fortuna le strade di Torino sono dritte. Per fortuna la giacca a vento bianca di suo figlio spicca, come un fiocco di neve svolazzante, tra i cupi pastrani invernali dei passanti. Per fortuna…
La moltitudine non accenna a diradarsi, sempre più chiassosa, ghignante, ingombrante… Sempre più assurda.
Come mai se ne accorge solo adesso? Ha vissuto tutti quegli anni senza capirlo?
Esausta, i piedi sanguinanti, i capelli intrisi di sudore, sente che le forze l’abbandonano, mentre un’angoscia indicibile le stringe il cuore. Com’è possibile che un bimbo così piccolo riesca a percorrere un tragitto così lungo, senza stancarsi, senza un’esitazione, un indugio? Com’è possibile che non si fermi più?
Gabriele imbocca corso San Maurizio, quasi seguisse un itinerario ben preciso.
Lei piange, con lunghi singhiozzi ansanti, aggrappandosi alle ultime energie che le sono rimaste. Non può perderlo!
Corso Regina Margherita: stanno allontanandosi dal centro. I marciapiedi sono più sporchi, i negozi più modesti, alcuni hanno l’insegna scritta in cinese.
La folla si è diradata, e Gisella riesce ad avanzare più in fretta, ma misteriosamente, la distanza che la separa da Gabriele non diminuisce.
Oh, le macchine che sfrecciano veloci, sollevando schizzi d’acqua gelida dalle pozzanghere! Oh, i tram che, sferragliando, scivolano sui binari! Non si è mai accorta di quanto siano terrorizzanti?
Darebbe qualsiasi cosa per interrompere l’incubo. Qualsiasi cosa!
Signore iddio… Laggiù c’è Porta Palazzo, e il mercato, e una nuova folla. Assai diversa dalla precedente, ma ugualmente pronta a inghiottire Gabriele.
Gisella lancia un lungo strillo acuto…
E di colpo, tace, incredula.
Qualcuno ha fermato il bambino.
Una ragazza dai capelli neri e dalla pelle ambrata l’ha acchiappato al volo, e ora gli accarezza la manina. Un arabo con il turbante si accoccola sul marciapiede per guardarlo in faccia. Un donnone africano, con un lungo caftano di cotone e uno scialle rattoppato, gli sorride, un po’ intirizzita. Le sue bimbe dalla pelle d’ebano gli parlano rapidamente in una lingua sconosciuta, mettendo in mostra i dentini smaglianti.
Gisella non riesce a staccare gli occhi dalla scena.
Il suo prezioso bambino, tutto occhi e riccioli dorati, sorride ai suoi nuovi compagni di presepe.

giovedì 22 dicembre 2011

IL MIO NATALE: SPIRITO DI NATALE di ALESSIA ALI'



Oggi mi sento triste.
Lo sono come mi capita di esserlo in certe giornate particolari dove ho solo voglia di non esserci, di spegnermi come un televisore rotto.
Per questo ho scelto il racconto di ALESSIA ALI'.
Perché mi calza a pennello.

Buona lettura.

SPIRITO DI NATALE

Ventiquattro dicembre.
La città è una giostra che mi stordisce di luce e rumore.
Il freddo del tramonto è sparito, inghiottito dal tepore dei corpi affannati che affollano le strade con il loro carico di pacchetti frettolosi, di cui ci si è ricordati proprio all’ultimo minuto. Solo io non ho alcun pacco regalo in mano. Se qualcuno se ne accorgesse troverebbe la cosa quantomeno insolita, ma nessuno se ne accorge, nessuno mi vede, mi passano accanto come se non esistessi. Forse è così.
Proseguo lungo i portici che incorniciano Piazza Vittorio, fermandomi di tanto in tanto a guardare il traffico che intasa le traverse e il serpente di macchine che entrano ed escono dal parcheggio sotterraneo.
La gente, quella no.
La gente non mi interessa.
Livia diceva che non sapevo cosa fosse lo spirito natalizio solo perché non riuscivo a condividere il suo insano entusiasmo per tutto ciò che aveva a che fare con festoni e lucine psichedeliche.
«A casa mia» mi ripeteva ogni anno, sbattendo gli occhi così grandi che potevo leggerci dentro tutti i suoi pensieri, «iniziamo a fare festa dal venticinque di novembre».
«Addirittura!» le rispondevo io, ogni anno più distrattamente.
«Già! Nel paese dove sono nata si festeggia Santa Caterina d’Alessandria come santa patrona. Il venticinque novembre, no? Quel giorno tutto il paese è in festa… e a casa mia si tirano fuori gli addobbi di Natale, mentre mia mamma e le mie zie preparano i dolcetti ripieni di frutta secca e le frittelle con il miele».
«Fantastico…» borbottavo.
«Non lo pensi davvero…» rispondeva lei, mettendo su un broncio che la faceva sembrare ancora più bambina.
«No» ammettevo.
E allora lei sorrideva e diceva che non importava, e mi scompigliava i capelli e mi prometteva che mi avrebbe insegnato ad amare il mondo.
Mentre torno indietro lungo via Po, penso che a Livia sarebbe piaciuto passeggiare con me sotto i portici la Vigilia di Natale; si sarebbe fermata davanti a ogni vetrina e avrebbe canticchiato le note malinconiche di qualche canzone suonata male dal vecchio all’angolo della strada e poi…
Scaccio la sua immagine dalla mente.
Livia se n’è andata per sempre.
Quando arrivo sotto casa è buio fondo, non so che ora di preciso, ma mi sembra che alla mezzanotte manchi ancora qualche giro d’orologio. Salgo le scale senza fare rumore, fino all’ultimo piano, ignorando il richiamo dell’ascensore non per spiare i rumori dietro le porte sbarrate degli altri condomini, ma solo perché non sopporto le ghirlande con cui qualcuno tra i più zelanti di quelli stessi condomini l’ha infiocchettato.
Lei la vedo prima di iniziare l’ultima rampa.
È in piedi davanti alla mia porta, tutta avvolta in una sgraziata mantella di panno blu, seria come solo lei sa essere.
«E tu che ci fai qui?» borbotto, facendo di malavoglia i pochi gradini che ci separano.
«Ti aspettavo» risponde, facendosi da parte perché apra la porta e la inviti ad entrare. Io apro la porta e non la invito ad entrare, ma lei mi viene dietro lo stesso.
Il mio appartamento ci accoglie, freddo come sempre. Non accendo la luce e mi dirigo direttamente in salotto, sperando che vada a sbattere contro la libreria che ho piazzato nell’ingresso e la smetta finalmente di darmi noia con la sua invadenza. Ma Sara arriva incolume a destinazione, si disfa della mantella buttandola sul divano e ci si sdraia sopra. Il vestito che indossa è solo un po’ meno bizzarro del solito, ma mette in evidenza tutte le sue curve.
Distolgo lo sguardo.
«Lo sai almeno che giorno è oggi?» mi chiede.
«E tu lo sai?» ribatto, versandomi due dita di bourbon.
«Livia non avrebbe voluto che ti riducessi così».
Butto giù il contenuto del bicchiere in un colpo solo. «Davvero? Allora avrebbe dovuto pensarci prima. Prima di tornarsene in quel suo maledetto paese e prendersi un proiettile vagante dritto nel cervello!». Sara rimane impassibile di fronte alla brutalità del mio sfogo. Così decido di rincarare la dose. «Prima di andare a farsi ammazzare insieme a mio figlio».
La guardo, aspettando il solito mi dispiace di circostanza. Ma Sara mi fissa sgomenta e allora capisco.
«Tu non lo sapevi – mormoro – non sapevi che Livia era incinta».
Lei scuote la testa e io mi sento un verme. Le verso una dose generosa di liquore nel mio stesso bicchiere e glielo metto in mano; lei lo guarda qualche istante in silenzio prima di assaggiarlo con la punta della lingua e poi, arricciando il naso, lo ingolla tutto.
«Non dovevi venire» le dico, ed è il massimo che possa fare per chiederle scusa.
«Lei non avrebbe voluto che gli amici ti lasciassero solo il giorno di Natale» ribatte Sara, i cui occhi scuri si ostinano a fissare i disegni geometrici del tappeto per evitare di incontrare i miei, che di limpido hanno solo il colore. «Anche se sei stato tu ad averci allontanati. Anche se sei tu che fai di tutto per mandarci via».
In quel momento suona la mezzanotte.
All’ultimo rintocco Sara si alza in piedi, barcollando appena. «Buon Natale Walter» dice.
Io rimango dove sono, in silenzio.
Sara finge che la mia indifferenza non le importi, recupera la sua mantella blu, ci si avvolge come in un lenzuolo, e mi lascia solo.
 Venticinque dicembre.
Sono seduto sul divano con una bottiglia di whisky vuota accanto e troppi cattivi pensieri per lasciarmi andare all’ebbrezza.
Lo schermo della tv è fisso sull’immagine di Livia il giorno del suo ultimo compleanno, pochi mesi fa. Mi alzo e vado ad accarezzare lo schermo, poi mi chino verso il mobile lì sotto e tiro fuori una grossa scatola di cartone rosso. Sollevo piano il coperchio, anche se so già cosa ci troverò dentro: chilometri di festoni e lucine intermittenti, qualche pallina spaiata e stelline di vetro soffiato da appendere ai rami spogli di un abete sintetico. Sto già pensando di buttare tutto giù dal balcone quando suonano alla porta. Sara è tornata, sempre con lo stesso vestito, sempre con la stessa faccia da crocerossina. Questa volta però la lascio entrare senza protestare.
La sua presenza mi riempie il salotto.
Si inginocchia sul tappeto, davanti alla scatola aperta, la svuota e rimane a fissare i singoli pezzi cercando di immaginare il quadro d’insieme, poi si alza e inizia e sistemarli in giro per la stanza, lungo il bordo della scrivania, tra i miei libri, tra le foglie di un tronchetto della felicità mezzo appassito.
Io la lascio fare.
«Buon Natale Walter» mi ripete alla fine.
Io getto un’occhiata alla stanza, che non sembra più la stessa. E non sono solo le cianfrusaglie che Sara ha sistemato qua e là a darle un aspetto diverso, no, niente affatto. Il fatto è che adesso, oltre a me e a lei, è tornato anche lo spirito di Livia, e io le sento vicino come non mai. Quello spirito che pensavo di aver perduto per sempre, perché da solo non sarei mai stato capace di farlo rivivere. Quello spirito che si nutre dei gesti di chi, come me, le ha voluto bene.
E allora capisco che quello che Livia avrebbe voluto per me è esattamente ciò di cui io ho bisogno.
«Buon Natale Sara» le rispondo. «Buon Natale».
***
 P.S.- mi scuso con tutte le persone che continuano a spedirmi racconti natalizi per partecipare a questa piccola antologia. Il progetto di chiude la notte del 25 dicembre e sono già oltre il numero massimo di racconti che posso pubblicare in questo spazio. Per questa "eccendenza", oggi, sono "costretto" a pubblicare due racconti invece di uno,per non lasciare niente in sospeso.
Grazie ancora a tutti per la partecipazione e l'amicizia.

ALIAS